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2. Lingua e dialetto

2.2 La Sicilia linguistica

2.2.1 Breve cenno storico preunitario

La Sicilia rientra nel sistema italo-romanzo, nel gruppo di idiomi neolatini di area italiana. L’isola è stata sotto varie dominazioni che necessariamente hanno avuto un’importante influenza sull’evoluzione della lingua (Alfieri, 1992, p. 799). Prima della colonizzazione ellenica dal VIII al IV secolo a.C. esisteva un complesso trilinguismo che un po’ semplificato consisteva in sicano (nella parte occidentale), élimo nella zona nordoccidentale e siculo nella parte occidentale. Dopo la conquista

10 Estratto dalla poesia Vinni Cola! di Giovanni Meli (1740-1815), citato in Lo Piparo (1987, pp. 765-66). Un ragazzo torna dopo un viaggio e si vanta di non usare più la sua lingua madre. Il padre lo rimprovera e fa notare che non bisogna dimenticare ciò che si è appreso prima, anche se si imparano delle cose nuove. Più importante della lingua stessa è il contenuto: «La verità è che l’antico linguaggio non è stato congedato dalla mia mente ma non è degno di essere allevato/Senti cosa mi disse un vecchio saggio: “Purché il vino sia puro e buono, non ha importanza se la ciotola è di corno o di faggio”».

romana con la caduta di Siracusa nel 212 a.C. la situazione cambiò in un netto bilinguismo greco-latino con domini d’uso diversi in cui il greco venne usato nei riti liturgici già dall’VIII secolo e il latino si diffuse attraverso l’espandersi dell’impero romano. Con la dominazione musulmana l’arabo venne usato in ambito

amministrativo fino alla conquista normanna nel 1061 quando si tornò al neolatino.

L’italianizzazione letteraria in età preunitaria e comunicativa in epoca postrisorgimentale “ne ha determinato l’identificazione non più come ‘isola’

alloglotta di un Impero multilingue, ma come isola dialettale di uno Stato

potenzialmente monolingue.” (Alfieri, 1992, p. 799). Ancora oggi rimangono delle tracce dall’arabo, greco e normanno, oltre al latino.

Quando il volgare toscano inizia a farsi strada da lingua comune nel

Cinquecento, si ha in Sicilia la scelta tra tre idiomi: latino, volgare siciliano o volgare toscano (dopo una coscienza linguistica “italiana” risalente nel Trecento grazie a Dante). Fino ad allora era solo il siciliano ad essere usato nei domini prima occupati dal latino. Si trovano parecchi esempi di testi burocratici in cui c’è la tendenza di toscanizzare il volgare siciliano (Lo Piparo, 1987, p. 737). Gradatamente però il volgare toscano coprirà i campi in cui prima era stato usato il siciliano, come lingua scritta pubblica. Già nel Cinquecento si vede l’attitudine che continuerà a dominare anche fino ad oggi, e che dice che l’idioma siciliano sarà riservato agli ambiti dell’affettività, mentre il toscano e il latino verrano usato negli ambiti pubblici. Lo mostra Antonio Veneziano che nel 1581 scrisse nella premessa delle ottave Celia:

“un grandi affettu non si basta megghiu esplicari, ch’in linguaggiu maternu, e cussì videmu, quann’unu è troppu ‘n colura, o superchiu allegru dà subitu ne la propria sua lingua, pri struttissimu chi sia di parlari autri linguaggi.” (Citato in Lo Piparo, 1987, pp. 745-46).

È importante notare però che il ruolo che il siciliano avrà fino a tutto il Settecento, è orale. I libri che erano scritti in siciliano lo erano per essere ascoltati.

Per far capire e istruire la gente di massa. Nelle Osservantii di la lingua siciliana del 1543 lo storico siracusano Claudio Arezzo ripete più volte che il siciliano e il toscano non sono strutturalmente e culturalmente diversi, ma due varietà dello stesso idioma, cioè l’una è una varietà geografica dell’altra, ma già va detto che il toscano è una

lingua più ripulita, “limata” e “moderna” dove il siciliano è una varietà popolare, colloquiale, arcaica e meno elegante. Il conflitto tra le varietà non ci fu però fino alla fine del Settecento, si confermò solo che la Sicilia era un luogo pluriidiomatico dove il siciliano, l’italiano, il latino e anche il castigliano avevano una loro naturale collocazione (Lo Piparo, 1987, p. 758).

Solo verso la fine del ‘700 con un anticipo della questione della lingua, il siciliano ricevette un declassamento a dialetto popolare con un passato illustre.

All’inizio dell’800 si formò una corrente di intellettuali nella Sicilia orientale che per la prima volta chiamò il toscano lingua straniera che un siciliano non sarebbe mai giunto a possedere perfettemente nemmeno dopo molto studio (Giuseppe Gentile in Lo Piparo, 1987, p.775). Nonostante questo l’opinione generale rimase quella di favorire l’italiano come lingua scritta. Giovanni Aceto sostenne nel Giornale patriottico del 1815 che il siciliano fosse lingua nociva alla nazione siciliana che rendeva ulteriormente difficile la comunicazione tra le nazioni mentre bisognava farsi capire e allora rispettare dalle altre nazioni. Il siciliano era equivalente all’italiano corrotto. Forse Gentile indicò l’unico problema quando disse che la vera questione non era la scelta tra siciliano e italiano ma la povertà economica e l’analfabetismo.

Con un tentativo di una rivoluzione autonomista e sicilianista del 1848 vi erano ancora quelli che cercavano di favorire il siciliano come lingua patria nella lotta per una Sicilia nazione-popolo politicamente autonoma, idea però che moriva nell’era siciliana preunitaria (Lo Piparo, 1987, p. 778-79).

L’era postunitaria unisce e separa contemporaneamente la Sicilia dall’Italia.

Nasce il nuovo concetto di purismo dialettale e culturale con la ricerca del dialetto puro che esiste nei piccoli comuni fuori dai centri più grandi. Il dibattito cambiò prima e dopo l’unificazione. Prima la norma era il siciliano parlato dai colti in città, che a loro volta si divertivano a disprezzare gli errori nel siciliano parlato dai meno colti. Dopo invece, la campagna analfabeta divenne la norma linguistica del siciliano parlato, perché nelle città il parlato subiva “troppi imbastardimenti di voci e di fonica” (in Lo Piparo, 1987, p. 784).