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L’inadeguatezza referenziale del linguaggio

La principale svolta nella riflessione occidentale sul linguaggio avviene con l’abbandono della visione del linguaggio come nomenclatura, ossia della teoria di rappresentazione. Nel Novecento si vede, infatti, un rifiuto della visione metafisica del linguaggio.14 Qui ci basiamo parzialmente sull’esposizione dello studioso Allen Thiher nell’opera Words in Reflection (1984).

Come abbiamo detto nell’introduzione, nel secolo scorso il linguaggio arriva a investire tutti i campi d’indagine intellettuale. Il linguaggio si rivela la chiave di tutto: è quanto esprime Wittgenstein sostenendo che i limiti del suo linguaggio costituiscono anche i limiti del suo mondo (Tractatus 5.6). Lo sviluppo del pensiero del filosofo tedesco è peraltro emblematico della riflessione novecentesca sul linguaggio. A detta di Thiher, il pensiero di Wittgenstein rappresenta la svolta a una concezione postmodernista del linguaggio, fondata sulla nozione di gioco (8). Si tratta, in altre parole, del passaggio da una concezione del linguaggio come rappresentazione o specchio del mondo a un approccio aperto all’ambiguità e al complesso uso effettivo dello stesso.

Le due fasi del pensiero di Wittgenstein sono esposte nel Tractatus logico-philosophicus (1921) e nelle Ricerche filosofiche (1953). Ne scrive Thiher: “To turn from the Tractatus to Wittgenstein’s later work is, in effect, to turn from one of the most original and rigorous expositions of a representational view of language to a systematic critique of such a representational point of view”

(17).

Il Tractatus esibisce quindi una prospettiva positivista, cioè il pensiero che le proposizioni logiche possano effettivamente esprimere i fatti del mondo. Con questa opera Wittgenstein si propone, dunque, di indicare i limiti del linguaggio per poter giungere a uno che sia ideale, univoco e perfettamente rappresentativo. Esso sarebbe da contrapporre al linguaggio ordinario che, secondo

14 Come afferma il critico tedesco George Steiner, il linguaggio ha tradizionalmente avuto una posizione di privilegio nella cultura occidentale (29). Vi troviamo due visioni del linguaggio strettamente connesse: quella metafisica e quella umanista. La concezione metafisica del linguaggio presuppone che vi sia un collegamento diretto e trascendente tra il linguaggio e la realtà, ovvero che il linguaggio sia uno specchio del mondo. Possiamo dire che ancora oggi il parlante comune ha una visione metafisica del linguaggio: pensando prevalentemente al linguaggio come un modo di denominare gli oggetti del mondo, si dà al frutto del melo il nome mela, avendo l’impressione di stabilire un legame univoco e trascendente con l’oggetto in questione. La parola funge in questo caso da nomenclatura. La nomenclatura è da intendere come un’etichetta che viene applicata al referente. Il primato della parola nella cultura occidentale è basato inoltre sulla visione umanista che l’uomo sia il possidente del linguaggio. Secondo Aristotele, è appunto per il possesso del linguaggio verbale che l’uomo si distingue dall’animale. La posizione di Aristotele assegna all’uomo un rapporto di confidenza e dominio con il linguaggio, concepito come mezzo per rappresentare, contenere e quindi gestire il caos del mondo.

Wittgenstein, è fonte di ambiguità, confusione e contingenza. Il filosofo precisa, però, che il linguaggio si limita ai fatti osservabili. Oltre i limiti del linguaggio si trovano perciò l’etica, l’arte e il mistico che, essendo indicibili, appartengono alla sfera del silenzio. Wittgenstein per certi versi dà al silenzio uno statuto particolare quando dice: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”

(Tractatus 7).

Con le Ricerche filosofiche Wittgenstein assume, invece, un approccio descrittivo al linguaggio, da contrapporre a quello normativo nel Tractatus. Non cercando più un linguaggio ideale, capace di rappresentare i fatti del mondo, Wittgenstein rinuncia alla stessa nozione metafisica di essenza, affermando che il linguaggio è talmente complesso ed espansivo da non poterne definire i limiti. In questa seconda fase, Wittgenstein volge l’attenzione al linguaggio ordinario: di conseguenza, lo scopo della filosofia non sarebbe più di trovare un linguaggio perfettamente logico e corrispondente alla realtà, bensì di descrivere i molteplici usi e significati del linguaggio reale. Per Wittgenstein, il linguaggio è da assomigliare a una serie di giochi linguistici, ognuno dei quali è determinato da certe regole. I nostri usi del linguaggio, ovvero i nostri giochi linguistici, non sono accomunati da un’essenza inerente al linguaggio ma da assomiglianze famigliari, da regole che si sovrappongono e si intrecciano. Per Wittgenstein il linguaggio è, inoltre, una “forma di vita”. Secondo Thiher, “Wittgenstein seems to be making an anthropological statement to the effect that language, much like play, is a natural activity, embedded in our human history of being in the world. Language is enmeshed in all our activities, since language is constitutive of the sense of the world we live in” (21).

Nelle Ricerche, Wittgenstein afferma in aggiunta l’impossibilità di un linguaggio privato, solipsistico, in quanto l’aspetto ludico del linguaggio lo rende per forza collettivo (Thiher 22).

Il rifiuto della nomenclatura corrisponde inoltre al pensiero del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, che ha esercitato un particolare influsso sul dibattito novecentesco sul linguaggio.

Le posizioni di Saussure sono esposte in Corso di linguistica generale, pubblicato postumo nel 1916. Ogni lingua – sostiene Saussure – è un sistema di segni collettivamente condiviso. Per Saussure, i segni di questo sistema si definiscono negativamente, cioè differiscono e dipendono l’uno dall’altro.15

15 È innanzitutto da sottolineare che ciò che intendiamo per parola non riferisce all’oggetto concreto, come infatti si è

soliti pensare, bensì a un’immagine mentale. Il referente è dunque un’entità a se stante, esterno al segno.

In primo luogo, Saussure ritiene che il segno sia bipartito e che consista nel significato, cioè il concetto (per esempio di “sedia”), e nel significante, cioè l’immagine acustica o ciò che normalmente intendiamo per “parola” (sedia). Saussure considera il significato e il significante due facce dello stesso foglio di carta (Saussure 137). In secondo luogo, Saussure ritiene che il legame tra le due facce del segno sia arbitrario, cioè non intrinseco al significato: se diciamo sedia non è perché il concetto di “mobile appoggiato su quattro gambe” lo richiede, ma per convenzione. Come sappiamo, in altre lingue il significato “sedia” ha dei significanti del tutto diversi, per esempio chair o stol. Ne consegue che ogni lingua è una struttura di differenze: il significante non è determinato dal significato ma dipende dal suo essere diverso dagli altri significanti del sistema. In breve possiamo dire che Saussure, evidenziando l’arbitrarietà e la convenzionalità del segno, apre un varco tra il linguaggio e la realtà e mette in questione la capacità referenziale del linguaggio.

Sulla scia di Saussure, il poststrutturalista Jacques Derrida afferma la bipartizione del segno, mostrando, però, una maggiore diffidenza nei confronti del linguaggio. Per Derrida, il linguaggio è innanzitutto inaffidabile, scivoloso e sfuggente. Il filosofo francese opera con la nozione di traccia, sostenendo cioè che ogni parola contiene il significato di parole precedenti e successive.

Siccome il significato è sempre contaminato da altri significati, esso non è mai univoco. Ne derivano un eccesso di significato e dei “labirinti semantici” (Thiher 83).16 Dunque, se Saussure per certi versi mette in crisi il rapporto tra linguaggio e realtà, Derrida allarga il varco da lui aperto.

Partendo da queste riflessioni, è facile capire come si sia consolidata, soprattutto nel secondo Novecento, una certa diffidenza verso il linguaggio, o almeno come esso sia diventato un campo di confusione. Se il linguaggio tradizionalmente è stato visto come un mezzo per mettere in ordine o dominare il mondo, ora sembra che il linguaggio, in quanto flusso di significato, sia esso stesso la fonte del caos.

Il carattere problematico del linguaggio è un tema ricorrente in tanta letteratura novecentesca e nella letteratura del secondo Novecento in particolare. Molti scrittori mettono in questione la concezione tradizionale del linguaggio, allontanandosi dalla rappresentazione realistica attraverso sperimentazioni formali, strutturali o linguistiche. Qui il linguaggio non è soltanto il mezzo di rappresentazione, ma può diventare esso stesso l’oggetto rappresentato.

16 Espandendo il concetto saussuriano di differenza, Derrida introduce la nozione di différance, che sta a indicare il differimento, ossia il rinvio, di significato. Secondo Thiher, il differimento è da considerare “the most radical attack on a classical view of representation: there is no locus of meaning, only movement, dynamic, play” (93).