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La crisi del linguaggio e il mito del silenzio

Se è vero che il linguaggio è stato messo in questione attraverso gli sviluppi del pensiero teorico, d’altro canto però la sensazione di una crisi del linguaggio è soprattutto storicamente condizionata:

a ciò hanno contribuito precisi eventi e fatti storici, in primo luogo la seconda guerra mondiale e lo sviluppo della società di massa.

Il Novecento è stato senza dubbio un secolo traumatico. L’uomo è stato messo di fronte alle barbarie più estreme: parliamo, ovviamente, delle due guerre mondiali e della Shoah. In questa prospettiva, l’irrazionalità del mondo non è solo un sentimento o un’astrazione teorica esistenzialista, bensì sembra rivelarsi un fatto. Lo sterminio di milioni di ebrei ne è la massima espressione, e di fronte a una tale assurdità il linguaggio risulta del tutto inadeguato.

Innanzitutto, le atrocità e i traumi della guerra si rivelano in gran parte indicibili. Infatti, la seconda guerra mondiale ha messo in questione non solo l’adeguatezza del linguaggio verbale ma

18 Eugène Ionesco visse da 1909 a 1994. È noto soprattutto per La Cantatrice chauve (1950), La Leçon (1951), Les Chaises (1952) e Le roi se meurt (1962). È considerato tra gli autori dell’assurdo, cui torneremo più avanti.

le possibilità e le forme della rappresentazione in generale: Auschwitz si configura per molto versi come l’irrappresentabile. È celebre la frase di Adorno, secondo la quale Auschwitz ha reso impossibile la poesia: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” (22). Si può dire che per la società occidentale, la guerra e la Shoah costituiscono la massima sfida al linguaggio, essendo le atrocità della guerra inconcepibili e tantomeno possibili da rappresentare per mezzo del linguaggio. Si tratta in effetti di un percepito allargamento dello scarto tra esperienza e mezzi espressivi.

In aggiunta, vi è l’opinione che il linguaggio sia addirittura disumanizzato dalla guerra: in questa ottica la lingua tedesca è uscita dalla guerra privata dalla sua dignità, corrotta dall’uso che se ne hanno fatto i nazisti. Da questa situazione emerge un doppio problema: non soltanto è indicibile gran parte dell’esperienza umana, ma il linguaggio, di per sé inadeguato, è perlopiù disumanizzato, svalutato. Dunque, vi è la sensazione che il linguaggio possa al massimo corrompere o falsificare la realtà.

Le posizioni esistenzialiste trovano, a loro volta, riscontro nella società alienata, angosciata e traumatizzata del dopoguerra. Nella società del consumo, l’uomo è dominato dai meccanismi capitalisti che, costringendolo al ruolo di consumatore, arrivano a cancellarne l’individualità. In linea con il pensiero esistenzialista, l’uomo moderno vive in uno stato di frattura e anonimità, facendo fatica a realizzare il proprio essere nonché di comunicare autenticamente. Dunque, se dalla società consumista emerge un uomo ridotto a cosa, dall’uomo emerge un linguaggio altrettanto reificato e anonimo.

Da questo punto di vista, la guerra e la società di massa esasperano il sentimento di sfiducia nei confronti del linguaggio. Tra chi dà voce a questa diffidenza, troviamo il critico George Steiner.

Egli accentua appunto il legame tra la guerra e la società del consumo da una parte e lo scetticismo verso il linguaggio dall’altra. Nella prefazione alla raccolta di saggi Linguaggio e silenzio (1967), Steiner si chiede:

Quali sono i rapporti del linguaggio con le atroci falsità che esso è stato costretto ad articolare e a consacrare in certi regimi totalitaristici? O con la gran congerie di volgarità, imprecisione e cupidigia di cui è saturo in una democrazia di consumatori di massa? […]

Stiamo forse uscendo da un’epoca storica di predominio verbale […] per entrare in una fase di linguaggio decaduto, di forme “postlinguistiche”, e forse di un silenzio parziale? (7)

Nonostante il tono forse troppo retorico e pessimistico, il passo esprime lo spirito del tempo del dopoguerra, ovvero la sensazione di una crisi del linguaggio. 19

In primo luogo, Steiner ipotizza che il linguaggio, come risultato di una generale tendenza di declino, sia giunto al suo esaurimento. Ritiene che siano sempre meno le cose che il linguaggio è davvero adatto a esprimere: “Lo strumento attualmente nelle nostre mani […] è logoro per il lungo uso. E le esigenze della cultura e della comunicazione di massa gli hanno fatto svolgere compiti di gusto sempre peggiore” (45). In secondo luogo, è dell’opinione che gli orrori della seconda guerra mondiale e in seguito le angosce della società consumista abbiano svalutato e disumanizzato il linguaggio (74).

La sfiducia verso il linguaggio rende perlopiù attualissimo il classico binomio tra silenzio e parola. Steiner sostiene che il silenzio per ragioni universali è “la logica finale del discorso poetico”

(74). A tal proposito ricordiamo la frase suggestiva di Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Secondo la studiosa Elisabeth Løvlie, con questa sentenza Wittgenstein aderisce al mito occidentale del silenzio, un mito duraturo poiché ci aiuta ad accettare le inadeguatezze del linguaggio (11, 13) Questo mito dipende, quindi, da un approccio dualistico che vede il linguaggio contrapposto al silenzio; come osserva Løvlie, il fascino del silenzio risiede appunto nel contrasto con il linguaggio, ritenuto difettoso (14).

Dunque, al linguaggio possibilmente corrotto dalla guerra, il silenzio si presenta come un’alternativa valida: in linea con il mito di cui abbiamo appena detto, il silenzio sarebbe capace di contenere l’indicibile, vale a dire conservare ciò che il linguaggio sarebbe destinato a ridurre o falsificare.

Per riassumere, possiamo dire che la crisi del linguaggio consiste in due problemi: il problema della rappresentazione e il problema dell’incomunicabilità, i quali sono interrelati ma anche chiaramente distinguibili. Il linguaggio è dunque inadeguato come mezzo rappresentativo in quanto non sta in rapporto diretto con la realtà esteriore o interiore e tantomeno può esprimere i traumi; inoltre, è inadeguato come mezzo comunicativo poiché gli uomini moderni non possiedono che un linguaggio inautentico e convenzionale.

19 Con Linguaggio e silenzio, Steiner dà voce alla sensazione di una crisi del linguaggio; egli fa infatti riferimento a Sartre e la sua crise du langage (34). Nel saggio “La fuga dalla parola”, contenuto nel volume, Steiner presenta in prospettiva storica la posizione del discorso verbale nella cultura occidentale, dal tradizionale primato della parola alla progressiva “fuga” dalla stessa. In breve, Steiner sostiene che il “mondo delle parole si è contratto” (43).

La sensazione che il linguaggio sia in qualche modo inadeguato non è per niente nuova;

tuttavia, nel Novecento essa acquisisce più spessore. Abbiamo visto che la concezione del linguaggio come nomenclatura, caratteristica della cultura occidentale in generale, nel corso dello scorso secolo subisce gli attacchi di studiosi, letterati ed intellettuali. Più che nel passato, si mettono a fuoco le inadeguatezze del linguaggio. Quindi, in un mondo che appare irrazionale e complesso, sembra allargarsi lo scarto tra linguaggio e realtà: il linguaggio di certo non pare più capace di contenere il mondo.

La crisi del linguaggio si fa sentire anche nella letteratura, luogo del linguaggio per eccellenza. Ciò avviene attraverso la messa in questione o tematizzazione del ruolo del linguaggio e attraverso la rappresentazione di incomunicabilità tra i personaggi del mondo narrato.